Ed è subito sera – Claudio Correggioli

Al quinto posto, un racconto il cui titolo cita la più celebre poesia di Salvatore Quasimodo.
L’autore è un informatico che ha iniziato a scrivere da poco, ma che non ha nessuna intenzione di smettere. Come dice nella sua biografia, ama scrivere storie cariche di emozioni, suspense e fantasia: e questo racconto ce le ha tutte tre.

 

Ed è subito sera

Claudio Correggioli

Ce ne stiamo seduti stretti stretti su di un sasso gelido, in fondo a questo tumulo, cercando con tutte le nostre forze di scomparire. Michele, Simona e io in mezzo, come sempre. Per farlo siamo venuti fino a Maeshowe, nelle isole Orcadi, dentro a una collinetta che in realtà era una tomba; siamo qui perché è il solstizio d’inverno e perché ci serve un poco di magia, l’ultimo piccolo sforzo per riuscire a sparire definitivamente.

Giusto per mettere subito in chiaro come stanno le cose: loro sono fantasmi. Ed io, pure. Perché sì: i fantasmi esistono, con buona pace di tutti quelli che non ci credono, e se le cose fossero sempre e solo come la gente crede o non crede, allora la Terra sarebbe piatta e tante altre amenità del genere. Siamo solo trasparenti, ecco spiegato il motivo per cui siamo ignorati per la maggior parte del tempo. Posso assicurare però che non c’è da aver paura di quelli nella nostra condizione dato che, come persino i vivi, abbiamo le nostre cose da fare e di tutto il resto non ce ne importa un bel nulla.

Noi tre ce ne stiamo qui, ialini, in attesa che venga il momento buono per scappare, proprio come se fossimo sull’orlo della pensione: c’è un meritato riposo, che ci attende, ma noi tre oggi abbiamo ancora l’ultimo lavoro da finire. Tre vecchi compagni, riuniti per sistemare gli ultimi dettagli.

«Dicevi?» m’ha chiesto Michele.
«Niente.»
«Poco prima di quella curva maledetta. Sono sicuro che stavi dicendo qualcosa.»
«Chi se lo ricorda più, ormai.»
«…»
Infine sono costretto ad ammettere: «Stavo parlando di Simona, mi pare.»
«È vero, stavi parlando di me» interloquisce lei.
«Magari stavo parlando del fatto che fossimo una bella coppia, insieme» azzardo.
«Gli stavi dicendo che con me non riuscivi più nemmeno a parlare» puntualizza Simona. «E gli hai chiesto perché, invece, parlassi con lui.»
«Davvero?» domando. Ma il mio stupore è di plastica, se ne accorgerebbe pure un sordo.
«Già» conferma Michele.

La curva maledetta in questione è al chilometro quarantacinqueerotti della statale 309, meglio conosciuta come Romea, meglio conosciuta come strada della morte. Un strada pessima, specie d’inverno, quando le nebbie della bassa impediscono di vedere al di là del parabrezza. Nebbie dense, capaci di infiltrarsi fin dentro alle ossa.

«Capita a tutte le coppie di non riuscire a parlarsi, a volte» dico.
«Chiaro» dice Michele.
«Una non può mica stare sempre in silenzio, no? Una donna ha bisogno di sfogo, di una spalla amica sulla quale piangere un po’. Di ricevere del conforto, quel minimo sindacale di calore umano.»
«L’importante è non esagerare, specie quando manca meno di un mese al matrimonio» dico, il tono più acido del necessario.
Michele scuote la testa: «Ero il tuo miglior amico. Ma tu te ne sei scordato subito.»
Scuoto la testa: «Non so. A me pare un’aggravante.»
«E invece è un’attenuante: meglio io che il primo che passa. Avresti dovuto fidarti di me» insiste lui.
«È vero: dovevi fidarti di lui, se proprio non volevi fidarti di me» si accoda Simona, con una voce stridula che contrasta dolorosamente con il silenzio del tumulo.

Li guardo: sono traslucidi ma ben visibili, almeno a me. Michele ha il petto schiacciato e il collo piegato in una angolazione innaturale, risultato del fatto che non aveva la cintura di sicurezza. Simona ha un grosso squarcio sulla nuca, dove ha battuto la testa. Lei, però, non era mica con noi quando abbiamo fatto l’incidente. Adesso sono persino più visibili di quando siamo entrati, perché questi discorsi non ci fanno bene e non sono quello che ci serve per scomparire. Ma noi non facciamo che ripeterli, ripeterli, ripeterli fino alla nausea. Ancora e poi ancora. Perché un fantasma è come una campana, risuona e riverbera dei propri ricordi e rimane fantasma fino a quando non ha smesso di vibrare e di ricordare. Dove vada a finire tutta questa energia prodotta dalle nostre vibrazioni, non saprei proprio dire. Quello che so è che i rimpianti vibrano abbastanza bene ma sono i rimorsi quelli che vibrano di più. La felicità e le cose belle che abbiamo vissuto, pare strano, non vibrano quasi per nulla. Non credo che sia la norma ma noi siamo la prova che certe volte ci si ritrova, dopo morti. Dato che la memoria non si azzera, due che si conoscevano da vivi poi si riconoscono subito anche da fantasmi. Sulle prime si prova un poco di vergogna, così nudi con rimpianti e rimorsi a ciondolare in bella mostra, ma poi ci si abitua. Persino in vita ci si abituava a tutto, figurarsi dopo.

E noi con questi discorsi stiamo vibrando troppo, perché per scomparire abbiamo bisogno di restare in silenzio per un intero minuto. Sessanta secondi di quiete e un pizzico di magia per liberarci dei nostri gravami e guadagnare una vita eterna di oblio: mica male. Se solo fosse più facile non pensare, se solo non fossimo ruminanti della memoria.

Noi, io e Michele intendo, siamo diventati fantasmi praticamente insieme. Tra di noi i rapporti sono stati chiari fin da subito: io guidavo e ho il rimorso più grande mentre lui era al mio fianco e, al limite, ha solo il rimpianto di non essere salito in macchina con qualcun altro. I primi istanti ha fatto strano, vivere in questo mondo traslucido, ma alla fine abbiamo convenuto che tutta questa trasparenza è di una certa comodità: basta uno sguardo per capire tante cose e anche per togliersi certe curiosità. Specialmente quando si incrocia qualcuna, fantasma pure lei s’intende, per cui valga la pena spendere un’occhiata insistita. Lui, ci ho fatto caso tante volte, di rimorsi non ne ha nemmeno l’ombra.
«Stare qui seduti al freddo mi pare che vi faccia male: vi si vede ancora meglio del solito» dico.
«Macché freddo!» dice Michele. «Per me è questa luce. È troppa» sbuffa, indicando la lama che ha cominciato a crescere all’ingresso del tunnel.
Quella lama abbacinante che taglia il nero è il motivo della nostra visita. Le tombe di Maeshowe sono piccole stanze costruite sotto a una collinetta artificiale, alle quali si accede attraverso un tunnel lungo e basso. E chi le ha costruite sapeva bene cosa stava facendo, perché sono allineate con il tramonto del solstizio d’inverno. Queste tombe sono chiuse da una pietra che non tappa l’ingresso, ma lascia libero, in alto, uno spazio grande come una mano; così, nel momento esatto del tramonto, la luce del sole morente entra e finisce per andare a sbattere proprio in fondo, nella camera dove adesso siamo seduti. Il sole nel suo punto più basso è destinato alla panca che ci accoglie. Quel sole per cui loro si domandavano se il giorno dopo avrebbe continuato a scendere ancora, per finire in una eterna notte invernale. Oppure se avrebbe rimbalzato in alto nel cielo, come tutti gli anni, foriero di primavera. Noi stiamo aspettando l’ultimo istante di luce prima del buio più fondo, in cui paura e speranza se ne stanno mescolate in dosi uguali: è questa la magia che ci serve.

«È la luce giusta» dico.
«Né troppa, né troppo poca, quella che ci deve essere al tramonto» dice Simona, con il suo solito gusto per l’ovvio.
«Certo che erano proprio bravi» dice Michele.
«Cosa vuoi dire?» chiedo.
«Che loro, tremila anni fa, giocavano con la luce del sole. Chissà se c’è ancora qualcuno di quelli, in giro.»
«Figurarsi. Avrebbero avuto bisogno di un rimorso da esportazione» dico, sperando che la battuta gli faccia perdere la voglia di continuare il discorso.
Come da vivo, però, lui è impermeabile ai miei suggerimenti: «Io perdevo le chiavi di casa un giorno sì e l’altro pure.»
«Tu le perdevi, le chiavi. Però, per fortuna, Simona le sapeva usare bene» dico, con la pazienza che mi cala di colpo.

Il pomeriggio prima dell’incidente ero tornato a casa in anticipo dal lavoro. Una sorpresa. Una di quelle che è meglio evitare, a saperlo prima. Simona doveva essere a casa ad aspettarmi solo che, quando sono arrivato, la porta era sprangata dall’interno. Ho suonato. Ho telefonato. Sia sul fisso che sul cellulare. Niente. Dopo dieci minuti di tentativi disperati e inutili me ne sono andato a fare quattro passi, perché non sapevo che altro fare.

«Non stavo bene e volevo dormire senza che nessuno mi disturbasse, così ho chiuso casa e ho staccato i telefoni. Non capisco cosa ci sia di male» mi ripete lei per l’ennesima volta.
La lama di luce si è allungata un altro poco e io non voglio alterarmi proprio adesso. «Niente c’è di male, è vero» dico, con l’aria di chi voglia troncare la discussione.
Michele invece non sa far altro che insistere: «Se ti fossi fidato adesso non dovremmo starcene qui.»
«Non è certo colpa mia se oggi ce ne stiamo seduti qui» sbotto, «e se tu te ne stessi in silenzio forse potremmo anche guadagnarci di dimenticare tutta questa storia.»
«I miei lividi» dice Simona, «ho male dappertutto.»
Lei è morta poco dopo di noi, un giorno che è caduta per le scale. Di sicuro è scivolata. Deve aver sbattuto la testa cadendo e, adesso, la ferita che le fiorisce sulla nuca è più grande e visibile che mai.
«Io… non… riesco a… respirare…»
Michele ha il petto più schiacciato e il collo più inclinato del solito. Chissà come devo essere buffo pure io, tra loro due: il fatto che stiamo rivivendo lucidamente le nostre morti mi sembra un segno di buona speranza. Ed è buffo constatare quanto si cerchi il buono anche nelle cose peggiori perché, davvero, pur di tirare avanti ci sentiamo obbligati a credere che ci sia sempre un’alba dentro all’imbrunire.

La luce impalpabile dall’ingresso è strisciata verso di noi e ormai cade vicino ai nostri piedi. Non riesco a percepirne il movimento ma è indubbio che si muova: mi distraggo solo un attimo e già mi tocca le scarpe, basta poco e mi abbraccia le ginocchia, nemmeno fosse lei a implorare pietà nei miei confronti. Sale sempre più su, fino al cuore, fino in faccia, ad accecarmi. Siamo in silenzio già da parecchio, che per tre come noi è davvero un miracolo. In un istante tutto si tinge di rosso sangue e l’attimo successivo l’oscurità comincia a riempire tutto, colando fuori dagli interstizi delle pietre che ci sovrastano.

L’ultimo raggio di sole è sparito e il tunnel torna più buio e opprimente di prima. Come ogni volta, la mia mente non sa fare altro che pescare nel fango dei ricordi: Michele seduto in macchina con me, al mio fianco, mentre litighiamo con l’auto che corre e, poco prima di quella brutta curva, la mia mano che slaccia quasi senza accorgersene la sua cintura. E i miei pugni che si abbattono su Simona, ancora e ancora, nel giorno in sono stato dimesso dall’ospedale. Di tutto quanto è successo dopo, invece, non ho serbato più nulla.

Non appena i miei occhi si abituano all’oscurità della nuova notte, quella più lunga di tutte, capisco che loro non ci sono più. Sono rimasto solo, con il mio respiro a scandire il tempo che scorre. In tasca, le mie dita giocano a turno con il biglietto di ritorno per l’autobus che m’ha portato qui, con una bottiglietta d’acqua ormai gelata e con una scatoletta di sonniferi ancora chiusa.

La cosa peggiore, per un fantasma, è di essere ancora vivo.


CorreggioliNella vita reale Claudio Correggioli è un precisissimo informatico che lavora per la pubblica amministrazione. Classe 1970, vive a Rovigo con la moglie, sua compagna anche sulle piste da ballo, dove si scatena con valzer, tango, slowfox e quick step. Nel 2015 hanno anche partecipato alla Coppa del mondo di danze standard. Ha cominciato a cimentarsi con le parole solo qualche anno fa e visto che ci ha preso gusto non ha intenzione di smettere. Quando scrive, racconta storie cariche di emozioni, suspense, fantasia.

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